MALATTIA ISCHEMICA CARDIACA
ANATOMIA PATOLOGICA DELLE SINDROME CORONARICHE ACUTE
DEFINIZIONE
La cardiopatia ischemica è definita come la discrepanza tra la richiesta cardiaca di ossigeno e la capacità di rifornimento coronarico
EPIDEMIOLOGIA
Chiamata anche sindrome coronarica, rappresenta il 45% di tutte le patologie cardiovascolari, ponendosi come la prima causa di morte al mondo. La mortalità è calata nei paesi ad alto reddito grazie ad una terapia preventiva incentrata sui fattori di rischio dell’aterosclerosi (fumo, dislipidemie, ipertensione, diabete ed obesità), responsabile del 90% dei casi di cardiopatia ischemica. Altre cause più rare di ischemia cardiaca sono: spasmo coronarico, anemia, ipotensione, patologie respiratorie, vasculiti e alterazioni endoteliali, anomalie anatomiche, dissecazione coronarica, procedure chirurgiche (angioplastica, bypass, chiusura stent).
PATOGENESI
Il cuore è ad elevato rischio ischemico perché caratterizzato da rami arteriosi terminali, metabolismo esclusivamente aerobio (rete capillare/miocita con rapporto 1/1) e una alta estrazione di ossigeno basale. La patogenesi rispecchia quella dell’aterosclerosi: malattia infiammatoria cronica degenerativa delle arterie di grande e medio calibro, caratterizzata da lesioni intimali chiamate ateromi, costituite da un nucleo lipidico avvolto da una capsula fibrotica che ostruiscono progressivamente il lume dei vasi. Quando una placca ateromasica ostruisce per oltre il 75% il lume coronarico e in condizioni di aumentata richiesta di ossigeno, avremo una ischemia transitoria a valle dell’ostruzione (area a rischio) che clinicamente si manifesta con l’angina. Se la placca non ha potenziale trombotico si definisce stabile e la sintomatologia dolorosa si risolve spontaneamente. Nel caso di placca instabile, essa si può erodere fino a rompersi, con esposizione del core lipidico protrombotico e conseguente ostruzione parziale o totale della coronaria (angina instabile).
Nel caso di ostruzione parziale e ischemia di durata superiore ai 20 minuti, avviene necrosi dei miocardiociti con infarto subendocardico NSTEMI o morte cardiaca improvvisa (morte inattesa dovuta ad una aritmia letale che insorge entro 1 ora dai sintomi, se presenti). Se l’ostruzione è totale, avremo invece un infarto transmurale STEMI, oppure una morte cardiaca improvvisa. L’evento ischemico acuto può determinare una alterazione funzionale del miocardiocita vitale definita “miocardio stordito”, caratterizzata da un deficit contrattile e un aumentato consumo di ossigeno in assenza di necrosi. E’ reversibile se l’area è riperfusa entro 20 minuti.
Nella cardiopatia ischemica cronica, a seguito di una coronaropatia ostruttiva, di un infarto o di un un intervento coronarico, l’ischemia si protrae nel tempo senza causare eventi acuti, ma determinando limitati eventi necrotici. Questi portano ad una insufficienza cardiaca progressiva caratterizzata da rimodellamento cardiaco con ipertrofia eccentrica/dilatativa e fibrosi.
Anche nella cardiomiopatia ischemica cronica si verifica una alterazione funzionale del cardiomiocita vitale definita “miocardio ibernato” che porta a compensi patologici con disfunzione contrattile reversibile. Tuttavia, il ripetersi di eventi ischemici determina anche una condizione protettiva alla necrosi che avviene con entità minore (precondizionamento ischemico).
Le sindromi coronariche si dividono quindi clinicamente in:
- forme acute: infarto miocardico (STEMI o NSTEMI), angina instabile, Morte cardiaca improvvisa
- Forme croniche: Angina stabile, Cardiopatia ischemica cronica
ANATOMIA PATOLOGICA DELL'INFARTO
Sul piano anatomopatologico è possibile evidenziare l’infarto solo se sono trascorse almeno 12 – 24 ore dall’evento ischemico. L’area di necrosi coagulativa è infatti osservabile come area pallida giallastra di consistenza molle solo dopo questo periodo di tempo (a meno di usare il tetrazolio cloruro che colora di rosso il tessuto vitale).
Non prima di 4 ore, al microscopio è possibile evidenziare la necrosi coagulativa circondata da waviness perinfartuale (fibrocellule ondulate) e miocitolisi colliquativa. Nel caso di una tentata riperfusione (oltre i 20 minuti dall’evento ischemico) avremo una necrosi di tipo emorragico, microscopicamente caratterizzato da sarcomeri compattati in “bande di contrazione” intracellulari. La riperfusione può inoltre creare un danno che si somma a quello ischemico tramite l’induzione dell’infiammazione e la liberazione di ROS.
Nella fase sub-acuta dell’infarto (da alcuni giorni a 2 settimane) si riscontra una zona iperemica infiammatoria che circonda l’area necrotica, caratterizzata da un infiltrato neutrofilo, con successiva componente macrofagica che rimuove le cellule necrotiche. Nella fase cronica (da 2 settimane in poi), si formerà in senso centripeto il tessuto di granulazione con formazione progressiva di una cicatrice fibrosa, di aspetto biancastro e di consistenza dura, la quale non è databile nel tempo se la lesione è guarita completamente (solitamente dopo 2 mesi). Questa fase è caratterizzata anche da neoangiogenesi, che tenta di ripristinare una vascolarizzazione nell’area infartuata.
In una ischemia cronica vedremo invece gli esiti cicatriziali e/o ipertrofici compensatori (cuore ingrandito per ipertrofia eccentrico/dilatativa con fibrosi).
Le complicanze più frequenti di un infarto cardiaco sono: aritmie, scompenso cardiaco e relativo edema polmonare, tromboembolia e rottura di cuore che a sendonda della sede può causaere tamponamento cardiaco, insufficienza valvolare o shunt.
TERAPIA INFARTO
Un cenno sulla terapia: lo scopo negli eventi acuti è ripristinare il flusso coronarico e di limitare i danni dell’ischemia. Le opzioni principali sono una vasodilatazione coronarica (nitrati), una terapia antitrombotica (ASA, eparina), ridurre la contrazione e il consumo di ossigeno cardiaco (Beta-bloccanti, ACE-inibitori) oppure tentare una riperfusione (fibrinolisi, angioplastica, bypass) con efficacia massima entro 1 ora dall’ischemia.
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